Ogni anno, da quasi quattro secoli, la statua raffigurante una giovane donna, sorridente e fiorita, attraversa, issata su un carro trionfale, le vie storiche di Palermo. Accade la notte di ogni 14 luglio, quando i festeggiamenti per la Santuzza toccano l’acme e una solenne processione invade quelle vie. Una data preziosa che si incastona nell’arco temporale compreso tra il 10 e il 15 dello stesso mese. Cinque giorni dedicati a lei, a Santa Rosalia, la patrona della città. Tempo di folklore e devozione che si salda in unità con un’altra data, quella del 4 settembre, nella quale si ricorda la sua morte. Due momenti fondanti della tradizione culturale palermitana, due diverse sfaccettature di uno stesso habitus mentale, che nella gratitudine trova il suo più nobile manifestarsi.
E grato è il palermitano che a quella processione sceglie di non mancare o che il 4 settembre decide di onorare la sua patrona con l’ascesa al monte Pellegrino, l’imperdibile Acchianata di ogni devoto, disposto ad affrontare sudore e fatica, per raggiungere il Santuario a Lei dedicato. Nessuno steccato, a ben guardare, separa i festeggiamenti di luglio da quelli settembrini. La distanza è solo cronologica. Identico l’orizzonte di attese, di speranze, identica la sostanza di quel camminare che, in modi diversi, caratterizza il corteo del cosiddetto Fistinu e la conquista di quel promontorio che Goethe proclamò il più bello del mondo.
Il cammino è, dunque, cifra qualificante di un culto popolare che ora, in un percorso orizzontale, si ammanta di fogge rutilanti e teatrali movenze, ora, dentro un tragitto tutto verticale, sa come indugiare su pose di intimistico fervore. Perché è pur sempre un pellegrino chiunque sciami, con voluttuosa dedizione, dentro la folla che, lungo l’antico asse viario del Cassaro, lasciandosi alle spalle la Cattedrale, raggiunge Porta Felice e la splendida Marina con i suoi fantasmagorici giochi pirotecnici.
Pellegrino non meno di chi, con più introverso sentire, guarda a quel Santuario svettante sulla città, come alla meta più salvifica, traguardo di luce al pari di quei fuochi di ineffabile bellezza, che dal cielo precipitano in mare, lasciando a bocca aperta il fortunato spettatore. Un impareggiabile sfavillio di colori che celebra la vita.
Così in questo 398º Festino la cui parola-chiave è, indubitabilmente, rinascita. Parola che incanta, che seduce, oggi più che in passato. Perché in questo 2022 la narrazione di quella epidemia secentesca, dalla quale la Santa liberò Palermo, giunge a noi con la vigorìa di un accadimento vero, palpabile. Perché oggi, come in quel 1624, uomini e donne di questa città, e non solo, si riscoprono fragili, impotenti.
Un mondo vulnerato dalla pandemia, quello di questi anni, per il quale solo ora sembra dischiudersi un timido varco di luce. “Viva Palermo e Santa Rosalia!”, grida con enfasi il Primo Cittadino da quel carro in solenne trionfo, ogni anno identico nella sua evocativa foggia di vascello, eppure nuovo, come nuovo è il tema di cui, di volta in volta, è significante. Nell’edizione di quest’anno, ad accompagnarlo sarà una sfilata composta da medici, infermieri, protezione civile, forze dell’ordine, Croce Rossa ovvero quella parte di società senza la quale la lotta al comune, invisibile nemico, sarebbe stata vana. Esempio, per tutti noi, di abnegazione, di generoso accudimento.
Ancora gratitudine, dunque, lungo quel camminare di mezza estate per selciati di storica memoria, fra fede e tradizione, tra chiacchere, svolazzi di ventagli e immancabili sbuffi per l’insopportabile calura, mentre vista e palato si inebriano di babbaluci, di calia e simienza, di anguria fresca e saporita.
Una folla facile a diventare calca, passi che sembrano rincorrersi, che spesso finiscono col confondersi nel garbuglio più disperante. Comu un ci siddia? Ovvero chi glielo fa fare? Si intende, al palermitano. Viene in soccorso la storia. Una storia suggestiva, ancorché intessuta di leggenda, che a Palermo tutti conoscono.
Vissuta nel dodicesimo secolo, in epoca normanna, Rosalia, secondo la tradizione, era figlia del Duca Sinibaldo, signore di Quisquina e di Maria Guiscarda, cugina del re normanno Ruggero II. Ancora giovane, divenne monaca basiliana. Una scelta consapevole che la condusse lontana dai fasti della corte, in favore di una vita eremitica vissuta nella radura di Quisquina, prima, nella grotta di Monte Pellegrino, poi.
Nel 1624, mentre a Palermo infuriava la peste, in seguito all’approdo nelle sue coste di un vascello “contaminato” proveniente dalla Tunisia, lo spirito di Rosalia apparve in sogno a un cacciatore. A lui indicò la strada per ritrovare le sue reliquie, pregandolo di riferire il fatto all’arcivescovo, affinché esse fossero portate in processione per la città, che fu così purificata e liberata dal morbo.
Rito collettivo di indubbia rilevanza antropologica, il Festino di metà luglio è fondatore di socialità e convivialità. Occasione, per l’intera comunità, di incontri fecondi, di intersecazioni culturali che accrescono il carattere multiculturale della città. Basti pensare agli Hindu Tamil, provenienti dall’India o dallo Sri Lanka, residenti a Palermo, che venerano Santa Rosalia allo stesso modo di Shiva e per i quali Fistinu e Acchianata sono ineludibili momenti di adorazione. “Santa Rosalia ti fa il miracolo, ti dà il lavoro”, sono soliti dire.
L’iconografia tramandata nei secoli ci consegna l’immagine di una donna dai tratti normanni. Bionda e bellissima, lontana dai colori segnatamente mediterranei. Una Beatrice ante litteram, luminoso tramite tra il Cielo e la Terra. Una bellezza che bene ci rammenta quanto stratificata sia la facies culturale di Palermo e della Sicilia, luogo di approdo e di splendida fioritura per Cartaginesi, Greci, Romani, Arabi, Normanni. Forse è per questo che l’adozione di Santa Rosalia da parte dei Tamil non ci lascia stupiti. Perchè in questa città, così venata di contraddizioni, ogni ossimoro è possibile. Palermo che ancora arranca eppure spera.
Palermo in piedi e accasciata. Palermo che cammina con Santa Rosalia.