Dedicato a Manfredi Borsellino. La Trattativa prima della Trattativa

“La trattativa è nel Dna della ragion di Stato e le pallottole alle spalle fanno parte di quella necessità traditrice…

Paolo Borsellino è stato ucciso il 19 luglio di trenta anni fa, un tempo lunghissimo che non ha ancora permesso però di scoprire la verità, fatta di nomi, cognomi, mandanti e responsabili della sua morte. Perchè è chiaro che il magistrato palermitano non aveva nemici solo tra i mafiosi…

 

Il ricordo di una così bella figura è importante ma lo è altrettanto il non nascondersi dietro la foglia di fico della retorica e dell’ipocrisia e ricordare che Paolo Borsellino “fu lasciato solo e tradito”.

 

In questa giornata di commemorazione un altro giudice, Lorenzo Matassa, dedica a uno dei figli del magistrato, Manfredi Borsellino, una lettera di triste solidarietà.

Sul tavolo del mio ufficio ho, da molti anni, una fotografia.

Una immagine di mio padre, in divisa militare, da giovanissimo ufficiale del Genio.

Su quella fotografia una medaglia che gli fu rilasciata alla fine della seconda guerra mondiale.

La foto ha un particolare valore (al di là della medaglia…) non solo per quello che può in apparenza ritenersi, ovvero il ricordo di un figlio per un padre.

Quella immagine ha una storia che provo, adesso, a raccontarvi brevemente.

Appena uscito dalla scuola ufficiali e “forgiato nella sua tempra di uomo e di soldato” quel giovane cadetto stava andando al fronte.

Era destinato alla tristemente famosa “linea Gustav”, ovvero una specie di confine in cui l’Italia – divisa in due – combatteva una battaglia già persa.

Cosciente del fatto che mai più sarebbe ritornato da quel fronte, mio padre aveva voluto ritrarsi nella bellezza dei suoi vent’anni.

Sulla fotografia inviata alla famiglia aveva così apposto, in bella scrittura, il suo pensiero:

“Ai miei amati genitori, affinché la commozione visiva raffermi sul ciglio dei loro occhi lagrime di lontananza nella terza Pasqua di guerra – Bolzano 25/4/1943 – XXI dell’Era fascista”. Il racconto di ciò che accadde dopo l’invio di quella foto lo ebbi direttamente da lui allorché la mia età pose la mente nelle condizioni di capire.

 

Quei giovani ufficiali erano stati mandati al macello da un Duce e da un governo oramai morenti.

Ma il loro dovere era quello di serrare le fila e tenere compatto un esercito senza più speranza.

Molti furono uccisi dai loro stessi uomini che rifiutavano di portare avanti quella guerra già persa.

Mio padre mi raccontava che i medici legali falsificavano i referti per non dovere certificare che quei giovani ufficiali uccisi avevano pallottole che li avevano colpiti alle spalle.

Ma la cosa più grave accadde proprio pochi mesi dopo quelle orgogliose parole che mio padre aveva indirizzato ai suoi genitori.

Il 3 settembre del 1943 l’Italia si arrese agli alleati con l’atto che viene ricordato come “armistizio di Cassibile”.

L’esercito fascista era dissolto.

Ma quei giovani ufficiali furono lasciati in abbandono per cinque giorni, ovvero fino alla data (8 settembre 1943) in cui avvenne l’annuncio formale.

Ebbene, durante quei giorni e per i giorni a venire, accadde di tutto.

Mio padre mi raccontò che non vi era divisa che non gli fosse nemica.

Gli sparavano i nazisti, gli americani, i fascisti, i partigiani, gli inglesi, i gurka nepalesi e anche i contadini improvvisatisi combattenti: tutti.

Ma lui era solo un uomo legato alla sua patria e ai suoi doveri di soldato.

Con la tristezza di un ricordo rotto dal dolore mi diceva: “Io ero solo un soldato che aveva messo la sua vita al servizio del Paese”.

La quasi totalità dei giovani ufficiali usciti dalla scuola di Bolzano non tornò mai più.

 

Questa storia della Storia italiana ha una sua morale tutta sintetizzata in quella fotografia.

Per questo motivo tengo quel ritratto bene in vista nel mio ufficio.

Per ricordare, a me stesso, che la “trattativa” è nel Dna della “ragion di Stato” e che le pallottole alle spalle fanno parte di quella necessità traditrice…

 

Foto archivio Matassa

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