In collaborazione con Vincenzo Orgitano
Insieme al mio giovane e propulsivo amico, il designer Vincenzo Orgitano, vorremmo iniziare la nostra impudica riflessione affrontando il tema dell’Autoproduzione nel design:
“autoproduzióne s. f. [comp. di auto-1 e produzione]. – 1. In economia, produzione di energia elettrica, fuori dal regime di monopolio, effettuata da un’impresa industriale per soddisfare i fabbisogni inerenti ai propri processi produttivi. 2. In editoria, produzione indipendente, pubblicata al di fuori dei circuiti dell’editoria tradizionale, prodotta soprattutto dagli appassionati di un genere culturale specifico a proprie spese.”
Questa è la voce del dizionario Treccani, e non risulta difficile declinare questo termine nel settore del design.
Le espressioni “produzione indipendente”, “fuori dal regime di monopolio”, “al di fuori dei circuiti dell’editoria tradizionale”, “prodotta soprattutto da appassionati”, e infine, “a proprie spese”, esercitano su di me e, inevitabilmente, anche su una sterminata costellazione di giovani designer, un fascino attrattivo, magnetico, irresistibile.
Parecchi oggetti di design fanno parte di edizioni a tiratura limitata e adesso abbiamo persino un Salone dedicato a questo settore di nicchia, che prende il nome di EDIT Napoli, creatura nata da un’idea di due donne formidabili: Domitilla Dardi che ne è la curatrice ed Emilia Petruccelli che ne è la fondatrice e direttrice. “EDIT Napoli è una fiera del design innovativo nata per supportare, promuovere e celebrare una nuova generazione di designer. Si concentra sull’ascesa del designer-maker che è in prima linea in un movimento che sta sfidando la tradizionale catena di produzione e distribuzione”, viene dichiarato nel manifesto d’intenti dell’iniziativa (www.editnapoli.com).
Questo fenomeno è stato ampiamente trattato dagli addetti ai lavori ma, a nostro avviso, in una maniera alquanto approssimativa e non sempre scevra di una certa propensione a liquidarlo come manifestazione marginale alla nobile disciplina del design.
Un pregiudizio aprioristico che ne confina l’ambito applicativo nella regione pressapochista propria del “fai-da-te”, piuttosto che promuovere processi produttivi seriamente volti a immettere manufatti prodotti in piccola serie sui mercati internazionali di settore o comunque rendere riconoscibili percorsi virtuosi di ricerca progettuale.
Potremmo iniziare la nostra impudica riflessione chiedendoci cosa realmente sia l’autoproduzione nel campo del Design, ma non ci impantaneremo in definizioni sommarie perché, nel tentativo di definire un fenomeno così complesso, si corre il rischio di dare connotazioni fin troppo auliche a un sistema di processi e pratiche che trae alimento da un ‘saper fare’ strettamente connesso a una inestinguibile matrice identitaria tutta italiana.
Nel tentativo di descrivere un idealtipo ci chiediamo invece:
Chi è colui che opera con l’Autoproduzione?
Salta subito alle nostre sensibili orecchie il curioso paradosso che mette in luce un’inutile dicotomia, propugnata con accanimento da numerosi addetti ai lavori, che vede tutti quei manufatti concepiti per essere realizzati attraverso un processo che li identifica come ‘prodotto industriale’, in contrapposizione ai manufatti frutto di procedimenti riconducibili all’autoproduzione.
A ben vedere infatti il Design, inteso nella sua forma più ortodossa di ‘prodotto per l’industria’, inizia la sua avventura a metà dell’Ottocento, con la nascita di meccanismi molto simili, se non del tutto analoghi, a quelli che noi oggi indichiamo col termine Autoproduzione.
Se è vero infatti che l’Autoproduttore coniughi entrambi i ruoli di progettista e produttore, allora non siamo lontani dal vero se affermiamo che Thonet, il grande padre del Design, fu a tutti gli effetti un AutoProduttore !
Dell’Autoproduttore il giovane Thonet ebbe tutti i vizi e tutte le immancabili virtù: progettò i suoi mobili prima ancora di avere una committenza in grado di riconoscere e accoglierne i profili espressivi e formali. Investì, quindi, parecchi denari di tasca propria, sfiorando persino la bancarotta, per poter mettere a punto quel processo produttivo che noi ancor oggi consideriamo esemplare. Ricevette per contro giudizi affatto lusinghieri da parte di tutti gli operatori del settore, che vedevano in lui un inventore scellerato piuttosto che quel genio dell’imprenditoria che si rivelerà in seguito.
Beh, a parlare di Thonet ci si potrebbe sentire davvero piccoli, ma non abbiate alcun complesso d’inferiorità, cari miei, perché tale disciplina, quella del design intendo, nel nostro paese, dico in Italia, ha mosso i primi passi proprio in quest’isola magica e misteriosa che è la Sicilia.
Lo abbiamo studiato per così tanti anni, quasi fosse un indigesto mantra, sulle avvincenti pagine del Vangelo secondo De Fusco (ovvero il testo-guida Storia del Design, scritto da Renato De Fusco nel 1986 e sino a oggi ancora rieditato con successo). Qui viene dato per scontato, che il Design Italiano nasce proprio in Sicilia, con le fabbriche Ducrot di Palermo, F.lli Sardella di Acireale, Wackerlin e Officina Sangiorgi di Catania, che peraltro realizzavano, come Thonet, parecchi arredi in legno curvato.
Questo accostamento degli opifici siciliani a uno dei giganti che hanno fatto grande la storia del design non è per nulla azzardato e da questo parallelo emergono tre caratteristiche sostanziali del profilo proprio dell’Autoproduttore Ideale.
Come per il padre della celebre seduta N°14, la prima caratteristica evidente dell’Autoproduttore è che questi, a ben vedere, non aspira affatto a fare il Designer a tempo pieno, quanto piuttosto mira a indossare i panni dell’imprenditore o, per meglio dire, a creare una realtà produttiva capace di sostanziare la sua visione progettuale che non trova riscontro nelle realtà produttive esistenti.
E se Thonet non riuscì nell’intento di incrociare un’azienda capace di riconoscere le preziose intuizioni e le potenzialità della sua idea di ‘prodotto d’arredo’, altrettanto possiamo registrare che accade ai giorni nostri, specie in relazione alle possibilità concesse ai giovani designer da parte delle aziende del nostro paese.
Queste ultime propendono a fare incetta di selezionatissime proposte progettuali provenienti da oltralpe, in ragione di una sorta di deriva glamour del mercato. Come già accade da decenni nel mondo della Moda e nell’Architettura, a fare il bello e il cattivo tempo sono i potenti gruppi finanziari che tengono in pugno grandi brand puntando soltanto ai numeri, infischiandosene della matrice identitaria propria del design italiano e delle produzioni sperimentali.
Per i tanti Don Chischotte del Design che credono ancora in una dimensione etica del progetto, fatta di ricerca e sperimentazione, l’unica strada possibile rimane quella di mettersi in proprio, facendo la ‘propria impresa’, e quindi puntando su una ‘propria idea di prodotto’.
Ricominciando da Thonet, appunto.
Ma veniamo adesso alla seconda analogia esistente tra Thonet e l’Autoproduzione.
Contrariamente a quanto si possa pensare, l’Autoproduttore non crea prodotti ma genera, piuttosto, processi. Spieghiamolo meglio.
L’Autoproduttore dedica i propri, non indifferenti sforzi, principalmente a una lunga fase di sperimentazione, volta a conseguire una tecnica o un processo produttivo che possa, di per se, risultare economicamente concorrenziale, come per Thonet si rivelò essere quello della curvatura a vapore del faggio che, nel contempo, rese estremamente riconoscibili le sue produzioni.
Veniamo alla terza analogia che intercorre tra Thonet e l’Autoproduttore Ideale, tornando al tema delle problematiche connesse alla dicotomia Autoproduzione – Disegno industriale.
I puristi, ovvero quelli che, a ragione o meno, credono ancora in una univoca definizione dell’oggetto di Design come ‘prodotto industriale’, potrebbero obiettare che, vista la tiratura limitata degli oggetti auto-prodotti, essi rimangano costretti all’interno della sfera dell’artigianato.
Questa convinzione non tiene conto però dell’evidenza che nella storia del prodotto industriale, e in quella del prodotto d’arredo in particolare, le realtà artigianali spesso si evolvano arrivando a sostenere i grandi numeri propri della produzione in serie. Tale fenomeno potrebbe perfino considerarsi fisiologico.
Se proviamo ad analizzare a fondo l’intera storia del Design, ci accorgiamo subito come un prodotto nato per l’industria difficilmente, possa essere convertito in prodotto d’artigianato, è vero invece che spesso avviene il contrario, ovvero che un prodotto ‘nativo artigianale’ divenga prodotto industriale, migrando più o meno agilmente nella produzione seriale, acquisendo tutte le caratteristiche di un prodotto di Design.
La distanza tra la produzione ‘in serie’ e l’artigianato, non si fonda quindi su una qualche differenza sostanziale tra i due, quanto piuttosto sulla limitata capacità delle piccole realtà produttive di implementare il loro apparato commerciale, condizione obbligata per realizzare i cospicui investimenti necessari per la serializzazione della produzione.
Peraltro, a tal proposito, tornando al modus operandi dell’Autoproduttore, potremo notare come nella sua metodologia progettuale si riscontri già una sorta di ‘serializzazione latente’, concependo il Designer i suoi oggetti, già a monte del processo realizzativo, per essere riproducibili in serie.
Ed è ancora una volta necessario ricorrere all’analogia con il caso Thonet, per il quale la vera causa che generò la trasformazione da un’attività dal profilo artigianale a una specificatamente industriale, è connessa, non tanto a un’evoluzione dei suoi prodotti in chiave industriale, – i processi produttivi rimasero sostanzialmente invariati sin dagli esordi della sua avventura imprenditoriale –, quanto piuttosto all’imponente apparato commerciale che l’ebanista austriaco seppe sviluppare. Tale apparato, generò un aumento di domanda, dunque di vendite, che rese sicura, anzi necessaria e indifferibile, l’implementazione della catena produttiva, avviando l’azienda verso una dimensione più propriamente industriale.
Negli ultimi venti anni, costi sempre più contenuti hanno dato accesso a macchinari capaci di operare con tecniche come il controllo numerico che consentendo la realizzazione di oggetti in quantità considerevoli, sconfessando la convinzione che questa fosse una prerogativa delle sole grandi industrie. Ciò ha assottigliato ancora di più la storica distanza tra la dimensione tecnologico-produttiva, propria dell’artigianato, e quella dell’industria.
Eliminato tale divario, almeno in linea teorica, a separare l’autoproduttore-artigiano dalla possibilità di poter generare un vero e proprio prodotto seriale, resta soltanto il grande scoglio della commercializzazione del prodotto.
Ed è a ragione di ciò che, in questo momento storico alcune realtà produttive che si sono riconosciute sotto la bandiera di autoproduttori, o di produttori di elementi d’eccellenza in piccola serie manifestano più che mai l’esigenza di disporre di strumenti atti a costruire valori riconoscibili da chi effettua la scelta che conduce all’acquisto.
In conclusione, potremmo dire che l’identikit dell’Autoproduttore ideale non esiste ancora, in quanto il fenomeno dell’Autoproduzione presenta molteplici sfaccettature e, certamente tra queste, ve ne è una estremamente ingombrante e quasi inestirpabile, che alimenta un forte pregiudizio: è quella che lo confina in una dimensione riconducibile con l’hobbistica.
Nascosti tra la grande folla di cosiddetti bricoleur, c’è un numero discreto di autoproduttori che, spesso inconsapevolmente, si avvicinano al profilo ideale di un Imprenditore-Designer.
E sono moltissimi, per fortuna, i potenziali Thonet del domani.
Avremo modo di parlarne prossimamente.