La vita è un gioco.
Un gran bel gioco per alcuni, solo una partita a dadi maledettamente truccata per altri.
Non è qui il luogo in cui chiedersi perché sia così.
Il motivo per cui il destino – o come lo si voglia chiamare – ad alcuni spalanchi le porte del paradiso qualunque cosa facciano e, ad altri, consegni l’inferno (che magari non meritano affatto…) non è domanda cui gli umani riescano a dare risposta.
La “Legge di Murphy”, quella che assume che se sei sfigato la tartina ti cadrà sempre dalla parte della marmellata, non ha un principio della Fisica che la regoli.
Semplicemente se ne sconosce la natura allo stesso modo in cui si sconosce la fatalità che ti porta (a volte con i tuoi stessi passi…) al prefissato esito.
Diciamo che la vita è un immenso quadrato degli scacchi fatto a sua volta di tanti quadrati. In quel perimetro, apparentemente chiuso, si muovono le infinite mosse dei protagonisti della partita.
Le regole sono pure poche, le mosse obbligate, i tempi di azione ristretti e non dilatabili.
Però, quello scenario quadrangolare, con mosse obbligate e tempi ristretti, crea la bellezza di infinite strategie.
E non ha neppure importanza che la fine possa essere quella di perdere miseramente,
poiché la “Grande Bellezza” sta nel divenire intelligente parte del gioco.
Il gioco della vita è forse ancora più bello proprio perché sai come va a finire…
Questa premessa era già scritta nel gioco che ho appena indicato come metafora sublime della vita.
Sembra sia stato inventato più di mille anni fa da un modesto contadino indiano. L’imperatore cui lo aveva donato, si era da subito fatto ammaliare dalle immense possibilità di coinvolgimento della mente. Vi giocò per giorni e giorni, godendo in ogni nuova partita di un piacere che era superiore a quello della precedente.
Quel contadino aveva concepito qualcosa che neanche un monarca avrebbe saputo creare con tutto il suo potere e la sua ricchezza. Per ringraziare del dono avuto, si dice che l’imperatore chiamò al suo cospetto l’umile uomo e gli offrì qualsivoglia cosa desiderasse in cambio.
La leggenda vuole che l’uomo abbia così risposto:
“Sono un uomo semplice e senza alti desideri. Solo mi basterà un chicco di riso per il primo quadrato della scacchiera. Ma saranno due per il secondo, quattro per il terzo, otto per il quarto e questa progressione desidero abbia il suo compimento fino all’esaurimento dei quadrati…”
Dicono che l’imperatore abbia sorriso alla richiesta ritenendola la più bislacca e semplice tra le richieste esaudibili. Onerò il suo tesoriere di dare immediato seguito alla piccola volontà del suo suddito e, continuando a sorridere, congedò l’uomo.
Passò del tempo e l’imperatore si chiese come mai il suo tesoriere non avesse ancora completato il calcolo e pagato al contadino il dovuto.
Il contabile, giunto al cospetto del monarca, si prostrò ai suoi piedi e chiese perdono per quel ritardo motivato dalle complicazioni dell’algebra.
“O mio Sovrano” – sembra abbia detto il tesoriere – “il debito che abbiamo in favore di quell’uomo non potrà essere pagato neppure con tutte le vostre ricchezze…”.
Possiamo immaginare come sia mutata l’espressione del volto dell’imperatore. “Non abbiamo chicchi di riso a sufficienza nei nostri granai per soddisfare questa così basilare richiesta?”
Il contabile prese un grande respiro per contenere l’imbarazzo e poi proseguì.
“No, Maestà, non vi sono coltivazioni sufficienti, al mondo, per consegnare a quell’uomo 18.446.744.073.709.551.615 chicchi di riso”.
La leggenda vuole che il sovrano, sentitosi offeso dall’arrogante tranello del contadino, ne abbia decretato la morte.
Era l’esito prevedibile dell’ultima partita di quell’uomo umile che aveva dato scacco al Re…