Quando la natura si colora di rosso e il sole scivola nel sonno del tramonto, dove il forte abbraccio dello Ionio con il Tirreno genera un caos di vortici e correnti, si svegliano mostri, amori, vendette, leggende e miti. E’ lo Stretto di Messina, che separa la Sicilia dall’Italia, un luogo magico, uno spettacolo straordinario, dove l’orizzonte si diluisce nelle cromie del blu di un mare autorevole, dove danzano i delfini e dove il vero “rais” degli abissi, il pesce spada, lotta estenuamente per la sopravvivenza, all’urlo umano di avvistamento. Non è un mare qualunque, quello dello Stretto di Messina è un’identità mitica, dove da sempre le menti dei marinai vivono i fantasmi di miti e leggende, tramandati da una memoria che si tramanda.
Sono racconti che appartengono geneticamente a chi vive sulle sponde dello Stretto, un imbuto di acqua salata protetto da una stele della Madonna che domina il suo porto dall’insolita forma a falce, che con la sua scritta a caratteri cubitali “Vos et ipsam civitatem benedicimus”, ancor più suggestiva e simbolica sommersa dal cielo notturno, saluta i suoi cittadini e potegge i naviganti che attraversano quel braccio di acqua, che la storia narra tutt’altro che ospitale per le sue correnti rapide e irregolari e per i venti che spirano violenti e in conflitto, ma soprattutto pericoloso e mortale, perchè popolato da creature mitologiche che incutono terrore.
Una mano destra, tesa e marmorea, di un Dio del mare, con evidenti richiami michelangioleschi, comanda sui mostri marini e le tempeste. E’ Nettuno, il signore del mare, solennemente rivolto verso lo Stretto. Serio, nudo e autorevole, che con il suo tridente nella mano sinistra, rievoca tutte le interpretazione di un forcone, simbolo di nascita, vita e morte, così come di passato, presente e futuro e di una spiritualità che si sintetizza nella mente, nello spirito e nel corpo.
E’ un’opera rinascimentale del collaboratore di Michelangelo, Giovanni Angelo Montorsoli, che nel Cinquecento, fortemente influenzato dalle storie di animali mostruosi che uscivano dall’acqua per uccidere eroi, diede vita all’imponente monumento dlla Fontana di Nettuno, signore del mare, che ancora oggi ai suoi piedi, tiene incatenati Scilla e Cariddi, vortici che risucchiano e dilananiano, storia di gelosia e passione, di amore e sortilegio, mito omerico tra le due sponde dello Stretto, orrendi mostri marini che distruggevano le navi dei marinai.
Se siedi accanto ai ricordi narrati da un pescatore, un marinaio o un mercante, che di quelle acque ne ha fatto un mestiere di scambio, e hai una fervida immaginazione, non è difficile cogliere il mito di una vendetta di amore, che inizia con la bellissima Scilla, ninfa dagli occhi blu che aveva stregato Glauco, divinità del mare, divenuto mezzo uomo e mezzo pesce, dopo avere mangiato un’erba magica. Un amore impossibile e ostacolato dalla sua trasformazione fisica, che impaurì Scilla e dalla maga Circe che, accecata dalla gelosia, trasfomò la bella ninfa dagli occhi cerulei, in un mostro marino dall’aspetto terribile, con dodici gambe piccole e deformi e sei lunghi colli, le cui teste terminavano in bocche piene di denti.
Scilla si nascose in una caverna scavata nella roccia, il suo ululato si sente ancora oggi nei giorni della “Lupa”, quando la nebbia avvolge lo Stretto, insidioso pericolo per naviganti, il vento attraversa le rocce e gli scogli e i vortici marini che si creano in prossimità della costa, generano un effetto acustico che ricorda l’ululato di disperazione di Scilla e quello di Cariddi, una giovane donna punita da Zeus per essere troppo golosa e per avere rubato uno dei buoi dalla mandria di Ercole. Fu colpita da un fulmine, cadde in mare davanti a Scilla e si trasformò in un altro orribile mostro marino che ingoiava enormi quantità d’acqua tre volte al giorno, restituendola altrettante volte, e che assumeva la forma di un vortice, che risucchiava qualsiasi tipo di imbarcazione nello Stretto di Messina, per riportarle sulla superficie del mare completamente distrutte.
Onore e gloria a un mito, che per i messinesi è motivo di orgoglio, Colapesce, l’uomo àncora in mare che regge la Sicilia sulle sue spalle. La leggenda narra di un certo Nicola, detto “Cola”, cosi bravo a nuotare, che lo chiamarono Cola-Pesce e di Federico II di Svevia, che rimase colpito dalle storie di Colapesce, tanto da testarne personalmente la veridicità ponendolo di fronte a tre sfide. Il re per primo gettò nell’acqua una coppa che Colapesce riuscì a riportare in superficie. Successivamente venne lanciata la corona, anch’essa riportata in superficie. Infine il sovrano gettò il suo prezioso anello, in una zona molto profonda. Colapesce andò così in basso per recuperarla, che notò 3 colonne che sostenevano la Sicilia, una delle quali in procinto di cedere a causa del caldo dell’Etna, decise quindi di non riemergere e di sostenere la colonna, e quindi di tutta la Sicilia, con le proprie forze. Solo ogni 100 anni, pare che riemerga in superficie per rivedere la sua amata terra.
Questa antica leggenda, che ricorda il mito greco di Atlante che sorregge il mondo, è stata rielaborata e riscritta da Italo Calvino, uno degli scrittori più importanti del Novecento, nella sua “Colapisci”. Fu narrata anche da Giuseppe Pitrè, studioso di tradizioni popolari siciliane e ripresa da Benedetto Croce.
Messina è grata al mito di Colapesce, tanto che se alzi gli occhi al cielo del Teatro Vittorio Emanuele, si aprono 130 metri quadri di un’opera magnifica, affreschi operati dal maestro di Bagheria, Renato Guttuso, una interpretazione pittorica del suo Colapesce e le sirene, che si compone di 143 pannelli, assemblati dallo stesso Guttuso direttamete nel suo studio. L’opera, che ha suggellato la discussa ricostruzione del massimo teatro cittadino, fu commissionata nel 1985 dall’allora consulente Gioacchino Lanza Tommasi.
Il fascino dello Stretto di Messina, con i suoi fondali ricchi di narrazione mitologica, si amplifica con i suoi fenomeni atmosferici, come quello di Fata Morgana, che solo i più fortunati riescono a cogliere. Nulla di magico, solo metafisica. E’ un effetto ottico che può essre osservato solo in alcuni momenti della giornata, come all’alba, al tramonto, oppure nei giorni coperti da nubi, quando minuscole goccioline di acqua, presenti nell’aria, riflettono il paesaggio nel cielo o nel mare. Ed è grazie a questo effetto ottico che guardando l’orizzonte, è possibile distinguere case, palazzi, strade di Reggio Calabria, la città che si apre all’Italia, di fronte alla Sicilia, terra di miti, di mare e di fuoco.
foto Teatro Vittorio Emanuele di Messina